Segnalazione di Alessia Paionni
Dopo aver aiutato i Greci a vincere la guerra di Troia con lo stratagemma del cavallo di legno, Ulisse vagò per un decennio nel Mediterraneo affrontando pericoli e amoreggiando con dee e principesse mentre a Itaca lo aspettano il figlio Telemaco e la moglie Penelope. Le sue vicende sono narrate nell’Odissea, che però ci restituisce una prospettiva prevalentemente maschile: le gesta dell’eroe e, in apertura, un episodio della vita di suo figlio Telemaco, narrate per secoli da cantori (aedi) uomini. Nell’Antica Grecia le donne infatti non contavano nulla, a meno che non fossero divinità e pure belle.
La tradizione letteraria celebra ad esempio la fama di Elena di Sparta (o di Troia), figlia di Zeus e Leda, principessa di Sparta e bella da morire (letteralmente), mentre in misura minore quella di Penelope, pure semidea, principessa spartana (e cugina di Elena), che tra le due era quella intelligente. Rende giustizia a Penelope il romanzo di Margaret Atwood ([1]) “Il canto di Penelope”, un testo sagace, rigoroso, sorprendente che rilegge l’Iliade e l’Odissea dal punto di vista della signora di Itaca, ne svela i retroscena familiari e spiega cosa significava essere donna nella Grecia degli Achei: una vera schifezza se eri regina e moglie di uno famoso; pensa se non lo eri.
Margaret Atwood narra le vicende di Penelope bambina, cresciuta nella reggia all’ombra di Elena e data in sposa a quindici anni al ben più maturo Ulisse, il quale pare avesse fatto carte false per avere lei anziché la cugina – se vi fossero ancora dubbi sull’arguzia dell’eroe. Dopo il trasferimento nella petrosa e ovicaprina Itaca, l’autrice descrive gli stratagemmi escogitati da Penelope per sopravvivere con Telemaco nella reggia dei suoceri Laerte e Anticlea e durante i vent’anni trascorsi ad aspettare il ritorno del marito: i primi dieci passabili, i restanti assediata da un branco di falsi pretendenti che miravano a sposarla e farla fuori – lei e pure Telemaco – per godersi il regno di Itaca in pace. Alla fine Ulisse torna e massacra non soltanto i pretendenti (comprensibile, per l’epoca) ma anche le dodici ancelle predilette della moglie – sue fedeli alleate contro i Proci. La storia termina con l’eroe che riparte per una nuova avventura, lasciando la moglie a Itaca.
Secondo Atwood, tuttavia, la storia potrebbe essere andata diversamente da come ci è stata raccontata, perché i poemi omerici restituiscono soltanto il punto di vista dei vincitori, un popolo di barbari dediti al culto patriarcale di Zeus padre, e non quello dei vinti – cioè la civiltà matriarcale egea, devota alla Grande Madre, al ciclo lunare e alle sue dodici sacerdotesse, che nel XII secolo a.C. subì la conquista dei Dori/Achei e quindi l’oblio. Delirio femminista? Leggete il romanzo e poi mi dite.
[1] Autrice del ben più celebre “Il racconto dell’ancella / The handmade’s tale”; se non l’avete letto, fatelo o guardatevi l’omonima serie su Netflix, tratta dal romanzo.